M. ha con il marito una relazione solo di facciata, da anni; inutili i tentativi di ritrovarsi, effettuati da lei, a senso unico. Non sembra una situazione che possa sfociare nella violenza fisica, ma il non vedere la fine di questa prigionia interiore, per questioni economiche, rende pesante il quotidiano. Normalmente M. ha buone soddisfazioni dal suo lavoro, che ha ripreso una volta cresciuti i tre figli, ma in questo periodo l’attività è chiusa.
Mi scrive perché ora che entrambi sono costretti a casa, ogni giorno, da settimane, quello che prima sembrava gestibile è diventato soffocante, letteralmente: la vicinanza dell’uomo le provoca una contrattura del diaframma, il respiro diventa superficiale, il bisogno di ritrarsi in un posto in solitudine si fa pressante. Si rifugia allora in bagno, o nello spazio di casa in quel momento disabitato. Ogni impulso di azione si blocca, entra in uno stato apatico, lascia che il tempo scivoli sul suo corpo rannicchiato, la mente spenta.
Dal punto di vista biologico, questa è la risposta che l’animale braccato da un predatore attua quando si rende conto di non poter attaccare, perché più debole dell’altro, né fuggire, perché non abbastanza veloce. Allora la soluzione è fingere di essere morto, riducendo al minimo le manifestazioni vitali, nella speranza che il predatore se ne vada.
Il grande muscolo della risposta attacca/fuggi (fightorflight), l’ileopsoas, congela il movimento e si irrigidisce insieme al diaframma.
L’animale braccato, se il predatore si allontana, troverà uno spazio tranquillo e nascosto dove rilasciare l’energia rimasta intrappolata nel suo sistema psiconeuroendocrino e muscolare, attraverso il tremore neurogeno. In questo modo il vissuto diventerà esperienza, senza accumularsi nel tempo ad altre vicende analoghe, generando distress.
Noi umani abbiamo dimenticato l’uso di questa facoltà innata, ma possiamo recuperarla facilmente: per riattivarla abbiamo bisogno di usare alcuni esercizi, assemblati dal dottor David Berceli a partire dalla bioenergetica, grazie ai quali la catena muscolare attacca/fuggi sente di poter rilasciare la propria tensione.
Fortunatamente M. ha partecipato ad alcuni degli incontri che organizzo in alcuni momenti dell’anno, per condividere con le persone questo dono bellissimo che è il T.R.E. (esercizi di rilascio del trauma e delle tensioni), così le rammento questa risorsa che ha a disposizione e di cui, nel campo confuso di parole non dette e gesti bloccati in cui vive quotidianamente, si è dimenticata.
Mi aggiorna, qualche ora dopo, per dirmi che il TRE le ha riportato il respiro e la voglia di attivarsi nella progettualità per il suo lavoro, e anche di mettersi in contatto con un’amica che non sentiva da tempo.
È chiaro che il problema di fondo richiede un’attenzione diversa, ma in questa condizione di emergenza T.R.E. è un aiuto validissimo e di effetto immediato per ritrovare il proprio centro, la lucidità di valutazione e rimettere a disposizione energie altrimenti congelate nella sofferenza.
immagine da fractal enlightenment