Dalla mia tesi di laurea in antropologia medica

Premessa: Cappello a punta e bacchetta magica

Ho sei anni; sono una bambina molto silenziosa, dentro di me un mondo immenso che non si mostra, desideri, sogni. È carnevale, e a scuola, nel pomeriggio, è stata organizzata una festicciola, bambini in costume.

Io non ho travestimenti, mia madre mi accompagna comunque fino all’ultimo piano del grande edificio scolastico. Nella semioscurità del corridoio, proprio un attimo prima di varcare la soglia della saletta in cui si accalcano già, nel frastuono, tanti piccoli Zorro, Pirati, Principesse, Suor Nicolina, la mia maestra, il mio faro, mi prende per mano e mi accompagna in un angolo, dandomi ciò che di più prezioso avrei potuto immaginare e desiderare in quel momento, un cappello a cono di raso azzurro, una bacchetta con una stellina d’oro sulla punta.

La trasformazione è immediata: il corridoio buio è ora scintillante di luce dorata, entro nella sala della festa con il cuore che salta e fa capriole, mi sento parte di ciò che sta accadendo, qualunque cosa stia accadendo.

Ho ventidue anni; frequento regolarmente un reparto di un grande ospedale della mia città per avere un’esperienza concreta di quello che studio nel corso di laurea in medicina. Le persone ricoverate vengono nominate con il numero di letto in cui giacciono, e il mio caporeparto si fa vanto di chiamarle con il loro nome, quando passa in visita, solo perché sbircia la cartella clinica.

In particolare, succede che coloro che capitano nel letto cinquantasette abbiano decorsi misteriosi, malesseri non diagnosticabili, pur con “batterie” di esami di ogni genere, e con “bombardamenti” di farmaci spesso aspecifici. D’altronde, il manuale di patologia speciale medica, oltre tremila pagine in quattro volumi, spesso e volentieri definisce le patologie descritte come idiopatiche, essenziali, quindi di natura sconosciuta. Termini che indicano il brancolare nel buio e nel buio lanciare terapie di cui non si conoscono i reali effetti nel corpo, soprattutto perché, di solito, composte da almeno tre principi attivi che una volta entrati in quel mistero biologico e non solo che è l’organismo, non saranno più governabili nelle loro interazioni. Considerazioni che mi inducono a riflettere sul reale potere curativo di ciò che studio, al di là della ottime intenzioni dei medici.

Uno dei miei compiti in reparto è quello di redigere l’anamnesi delle persone che vengono ricoverate. Per riassumere il nocciolo di questo lavoro: da Leib (organismo vivente) a Körper (macchina corporea). Quindi, se ci sono interventi chirurgici che si susseguono, se ci sono malesseri che si ripetono, se compaiono all’improvviso malattie, attenersi a questo, tutto ciò che è la vita della persona, i suoi legami affettivi e non, le sue esperienze di gioia, delusione, amore, frustrazione, non contano e rimarranno dietro le quinte mentre i riflettori sono puntati su sintomi e bisturi.

Insomma, così come scriveva Ralph Linton (1973,8) a proposito degli antropologi: “Un mio amico che di recente era tornato da una ricerca di campo, mi disse che il suo materiale era pronto per essere pubblicato, doveva solo togliere da esso la vita”, anche nel campo medico anamnesi significava togliere la vita dalla vita di una persona, e saltare dalla punta di un iceberg all’altra, ignari della montagna di utili informazioni sommerse.

Ho cinquantasette anni, frequento con emozione e grandissima soddisfazione il corso di laurea magistrale in antropologia culturale ed etnografia. Questa esperienza mi riconcilia con l’insegnamento universitario e l’ambiente accademico: tanto mi ero sentita un pesce fuor d’acqua durante gli studi di medicina, tanto ora mi sento tornata a casa con questi docenti che si avvicinano all’uomo con rispetto e curiosità, oltre che con competenza e passione.

Si aprono molte porte su mondi sconosciuti ma familiari. In fin dei conti, l’impulso ad esplorare il mondo visto dall’antropologia, è nato in me dalla chiarissima percezione di utilizzare uno sguardo antropologico, dato che la maggior parte dei disagi, interiori e/o fisici lamentati dalle persone che incontro in studio, scaturiscono dal divario tra la direzione di vita auspicata dalla loro autenticità e il binario in cui il sistema di convinzioni in cui vivono li conduce, tra il modo in cui percepiscono se stessi e la realtà e qualcosa in loro che ha opinioni differenti. 

Le storie di vita che ripercorro insieme alle persone, e che costituiscono il fondamento di questo lavoro, sono un cammino in cui si intrecciano ricordi, comprensioni, intuizioni di entrambi, paziente e terapeuta, in uno scambio continuo in cui dare e ricevere non sono più distinguibili. Così quando Monica si è illuminata nel percepire il cambiamento di paradigma dentro di sé, e la luce della comprensione inondava finalmente stanze tenute dolorosamente chiuse, mi è affiorato il ricordo di quell’episodio infantile, in cui avevo sperimentato la rapidità del cambiamento quando i cuori sono presenti l’uno all’altro. E ho pensato che forse proprio lì ha le radici il mio desiderio di facilitare la trasformazione, svelare calda luce là dove la paura mantiene l’oscurità, e il dolore, 

Quando Emma ha incontrato il dolore incorporato del contatto con il forcipe, abbiamo percepito chiarissima e inconfutabile la connessione dei nostri esseri e il passaggio sincronico di informazioni ben oltre l’uso della mente e del linguaggio, connessione che ha permesso il rilascio della memoria di sofferenza collegata al nascere.

Tutto quanto è riportato in questo elaborato è frutto in primis di esperienza personale, portata poi nell’attività professionale; ogni percorso formativo che ho seguito è stato di natura esperienziale, per cui ho sperimentato prima di tutto su di me gli approcci e le modalità che avrei successivamente utilizzato nella relazione terapeutica. Inoltre, nella relazione con il paziente si attivano automaticamente riflessioni, ricordi, sensazioni, indipendentemente dal fatto che il terapeuta ne sia cosciente. Conviene allora accogliere questi aspetti e conoscerli il più possibile, perché è ciò che non vediamo, di cui non riconosciamo l’esistenza, che ha il potere di condizionarci.

Quindi tutto è assolutamente soggettivo, filtrato dalla percezione, dall’esperienza di realtà e dalla trasformazione personali, intrecciate, valorizzate, comprese, nell’incontro da cui scaturisce la nuova versione aggiornata di ognuno.

Ma non è quello che la fisica quantistica ha scoperto da ormai più di un secolo?

Ogni esperimento, ogni situazione, è influenzato dalla presenza dell’osservatore:

bene allora che l’osservatore sia presente dallo spazio del cuore,

dove c’è discernimento, non giudizio,

dove c’è unità, non separazione,

dove c’è ascolto, non manipolazione,

dove c’è etica, non morale.

Insieme possiamo riscoprire il piacere di essere presenti dallo spazio del cuore, e di saper rispondere a ciò che è, orientandoci al benessere: il piacere di non reagire alle situazioni, ma agire o non agire a partire dal sentire autentico.

Dalle reazioni di sopravvivenza alle azioni di benessere, nel quotidiano.